(per secondo capitolo vedi lunedì 5 settembre)
Quella sera avevo accettato l’invito di Maurizio ed ero andato a una festa. Era giusto un mese che Javier era morto. Esattamente un mese. Precisamente un mese. Non un giorno di più. Una delle sue sorelle mi aveva cercato ma io non avevo richiamato. Non avevo voglia di parlare con loro. Della loro sofferenza non mi interessava nulla. Li odiavo, prima quando Javier era vivo, continuo ad odiarli ora che Javier non c’è più. Non volevo conoscere il loro dolore, non mi interessava sapere quanto era difficile la loro disperazione. Per tutta la vita mi hanno insegnato la compassione, per tutta la vita mi si è stretto il cuore difronte alla morte e alla sofferenza degli altri. Adesso però non ne potevo più neppure di questo peso. Inutile, come passare la serata davanti al televisore sognando di essere al posto degli eroi che ti stanno tenendo compagnia. «Vi detesto» mi veniva voglia di gridare, lasciatemi stare, dei vostri racconti segnati da ricordi, lacrime e depressione non me ne faccio nulla. Per questo durante la festa mi è venuta la malsana idea di chiamare la sorella di Javier che mi aveva cercato per dirle semplicemente «So che mi hai cercato, scusa sono a una festa non sento nulla ti chiamerò io in questi giorni». Ovviamente non l’ho mai più chiamata e neppure mai più sentita. Avevo dato a loro la certezza di quello che sospettavano da sempre: Che a me di Javier non me ne fregasse niente. Che meraviglia, ero riuscito ad allegerirmi di un atro peso: quello di convincere gli altri di essere completamente diverso da come mi credevano. Anzi, no. Gli altri hanno ragione: non sono diverso da come pensano sia: sono esattamente e precisamente così. Però, per favore, lasciatemi in pace. Durante la festa mi sono trovato nel bel mezzo di una trombata semi collettiva. Con l’indifferenza di chi sa che tanto non cambia nulla, che la faglia trasforme che ha nell’anima da quando sei piccolo rimane tale, che il piacere dopo pochi secondi si trasforma in un senso di colpa opprimente, che quando ti riallacci i pantaloni e guardi la miseria che ti circonda pensi: «ma io non sono come loro», e hai perfettamente ragione, ma non si capisce mai perché alla fine con loro vai sempre a finire. Ma il vero dramma che tutto questo buio che anche allora mi aveva assalito non c’entrava nulla con la morte di Javier. Non aveva nulla a che fare con il fatto che lui era morto. Aveva a che fare con me. La sua unica colpa è che non c’era più e io ero tornato solo, come quattro anni prima. «Così mi sono trovato con tre persone nel letto senza neppure sapere come cazzo si chiamassero. Uno credo di averlo già visto in palestra o non so dove. O forse è un amico di Javier. Niente Nina, solite cose». Ero al telefono con Nina, la mia amica del cuore, quella che sapeva tutto di me, della mia vita, delle mie avventure, dei miei limiti, delle mie ultime scopate, dalla durata dei miei amanti, della lunghezza dei loro peni, delle mie posizioni sotto le lenzuola. Sapeva assolutamente tutto di quello che facevo. Meno del perché. «Sono tornato a casa tardissimo e mi sono svegliato ora. Che ore sono?». «Le tre». «Ieri era un mese che è morto Javier». «Già»? disse Nina. «Sì, un mese che non lo vedo più». «Alberto e non lo vedrai mai più, perché è morto».«Lo so che è morto», le risposi. «E che io sono rimasto solo», pensai.
(Gli altri capitoli di Sottopassaggio sono anche su http://penaepanico.splinder.com/)
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