«Tu non hai idea di come sono stanca, per fortuna che è finita. Non ne posso più di sfilate, ho i piedi a pezzi». «Ma cosa dici ti trovo benissimo e questa borsetta da dove arriva? E’ magnifica».
«Prada, l’ho presa l’anno scorso a Convivio».
«Stai benissimo».
«Amore come va?»
«Per fortuna che è finita, sono a pezzi lo stavo giusto raccontando a Dori, vi conoscete?».
«Sì ci siamo conosciute alla festa della Versace».
«Che serata, che serata la festa dalla Donatella. Sempre divertente».
Seduto, solo con lo sguardo proteso verso la fila che avevo di fronte, un bel po’ di fronte, aspettavo impaziente che la collezione uomo primavera estate di Roberto Cavalli si palesasse davanti ai miei occhi. Avevo gli ormoni a mille. Erano settimane che non mi portavo nessuno a letto e avevo voglia di sognare con questi efebici palestrati che da lì a poco mi sarebbero passati davanti agli occhi. Le solite starlette della televisione sembravano tutte arrivate. Sembravano, perché in realtà loro, lì sedute in prima fila a sventolare inviti per farsi aria non c’erano. C’erano i loro simulacri. Le starlette erano altrove. A Miami. Alle Hawai ad abbronzarsi in un beauty center per 10 euro, crema compresa. Il mio mondo in quei giorni era quello lì. Fatto di corpi che nel chiaro scuro di una sfilata si vedevano a tratti, di volti nascosti dietro occhiali scuri, di pelli consumate del sole e nutrite a Chanel e Nivea a seconda delle file in cui erano sedute. Era quello. Un mondo apparente e finto come uno studio televisivo, ipocrita come il mio dolore che si nascondeva intabarrato dentro i miei strati di lana. Mi guardavo in giro ma più in qua delle mura che chiudevano fuori il cielo non vedevo nulla. Ero lì e mi sentivo un puntino di inchiostro su un foglio nero, irriconoscibile come Eva Kant col travestimento. Il mio mondo era lì, con me spettatore che guardavo un ennesimo spettacolo che non mi apparteneva, un altro circo danzante senza equilibristi, nani e giocolieri, statico come il film del lunedì. Di colpo mi resi conto che stavo toccando la fine. Dentro ero un tossico dal sorriso smagliante, un apolide con doppio passaporto, un prostituto con la bocca slogata. Più in là c’era solo la mia ombra che tremolante non trovava più la figura che l’aveva generata. E a quel punto anche i modelli che mostravano i loro muscoli adamantini erano passati davanti indifferenti al mio sguardo, ai miei commenti, alla mia solita selezione naturale fatta di: "questo ispira, questo no". Il mio mondo, panciuto, con i glutei cadenti e le braccia flaccide si era imposto su di loro, sui loro visi imbronciati che promettevano ricchi premi e cotillon, sui loro sguardi assetati di realtà. Chiuso lo zoo, finita la sfilata, tornai da dove ero arrivato, con la testa bassa a fingere che quello spettacolo di plexiglas, freddo come una cascata, mi fosse servito almeno per un attimo a dimenticarmi. Ma Javier continuava a non esserci più, loro, i modelli al botulino, anche. Per cui come potevo rigenerarmi da due mancanze?
«Come è andata la sfilata»?
«Meravigliosa un orgia di musica e toraci», risposi al mio collega che si occupava di moda al quale, in quei giorni, stavo dando una mano al giornale.
«Roberto è sempre così, sa come stupire il suo pubblico. Immagino comunque che non abbia proposto nulla di nuovo o no»?
Roberto? Ma non sai neppure chi è Roberto, non gli hai mai stretto la mano a Roberto. Non hai mai scambiato neppure un opinione con Roberto? Cosa fa Roberto quando non lavora? Con chi esce Roberto la sera? A cosa pensa Roberto prima di addormentarsi? Che ne sai tu di Roberto. Eppure ne parli come se fosse l’amico di una vita. E io mentre tu mi parli di Roberto che non conosci vorrei vomitarti in faccia tutto quello che so di Javier, di come mi stringeva prima di addormentarmi, di come mi coccolava quando tornavo dal lavoro stanco, di come era capace di amarmi quando facevamo l’amore. E tu mi parli di Roberto? Ma chi cazzo è Roberto?
«Hai ragione nulla di che, un po’ come tutti mi sembra».
«Ormai nella moda non succede più nulla di interessante da anni. Le solite baracconate. Vado che devo correre da Ferré. Fai il pezzo, poi quando torno ci do un’occhiata».«Non vedo l’ora soprattutto che tu ci dia un’occhiata», pensai. «Ma lo sai coglione che Javier è morto e dei tuoi articoli del cazzo non me ne frega niente. Dai un’occhiata al mio pezzo? E se è sbagliato cosa succede che mi metti in castigo. E se è perfetto, invece, cosa fai? Mi fai resuscitare Javier e me lo porti qui? Ma qui dentro pensate che basti farmi seguire due sfilate e offrirmi un viaggio stampa alle Maldive per farmi stare bene? Ma cosa volete da me, perché non la smettete di fare finta di niente e non mi dite la verità, non mi dite quello che davvero pensate. E cioè: «Alberto dacci un taglio con i tuoi piagnistei nessuno può farci nulla, cerca di riprenderti il prima possibile però adesso lavora perché vogliamo andare a casa presto visto che noi qualcuno che ci aspetta l’abbiamo». Perché nessuno ha il coraggio di dirmelo. Eppure dai vostri sguardi al cerone, dietro i vostri occhiali griffati, nelle vostre giacchette cangianti non mi arrivano che bugie. Inutili, convenevoli e sedicenti bugie. I miei pensieri cattivi stavano prendendo una brutta piega. Mi stava venendo da piangere. Semplicemente perché era vero: loro, avevano davvero qualcuno che li aspettava a casa quando tornavano dal lavoro. Io no. Non avevo più neppure il gatto della vicina, collassato qualche mese prima sotto i miei occhi. Addio Javier. Addio Topino. (gli altri capitoli sono su http://penaepanico.splinder.com/).
(Nella foto l'ultima campagna di Oliviero Toscani per Ra-re)
2 commenti:
bello il capitolo 4, molto bello, anche un po' triste ma vero, sentito
bravo
come è vero quello che dici...è tutta una tristezza e una vacuità senza fine....questa città è una merda, è di una superficialità imbarazzante, la gente ha un'attenzione verso gli altri pari a quella che io ho per il cricket
a parte questo, il capitolo è molto bello e appassionato
gm
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