lunedì, ottobre 03, 2005

Sottopassaggio (capitolo sei)

Avevo reagito come sempre, tirando fuori tutta l’aggressivita’ che avevo, masticando il mio dolore ancora caldo e tremante per trasformarlo in una poltiglia senza sapore ne odore, tanto fine e trasparente da non essere percepita dagli altri. Era la morte. Quella di Javier. Ma il problema era proprio questo. Gli altri soffrivano perché lui se ne era andato per sempre, io perché ero rimasto solo per sempre. E di conseguenza anche il mio dolore nella sua mediocre realtà da quelli che mi circondavano non veniva capito. Come se avessero paura di scoprire quello che c’era davvero dentro di me, quanto egoismo si celava dietro i miei sorrisi compiacenti e i miei ricordi incatenati alle immagini di sempre: io solo, io con Javier, io di nuovo solo. Avevano paura di sapere che la natura umana era lì a pochi passi da loro, abituati alla compassine, alla pena, alla tenerezza e alla commiserazione. Tutte cose che io non sapevo neppure cosa fossero. Eppure la natura umana era davvero lì ad un passo da tutti. Appicicata a me.
«Hai fatto benissimo a cambiare casa, in questo modo ti sara’ anche piu’ facile non ricordare», mi aveva detto Paolo durante una cena che avevamo organizzato nella mia nuova casa.
«Paolo, non vorrei insistere, ma io non ho cambiato casa di mia spontanea volonta’ e’ che quella puttana della figlia di Javier, che come ben sai e’ morto tre mesi fa, ha venduto casa. Se fosse stato per me me ne sarei stato lì tutta la vita, soprattutto, se poi, avessi continuato a non pagare l’affitto. Perché oltre a tutto il resto devo anche pagarmi l’affitto, cosa che non facevo da anni, come ben vi raccontava lo spagnolo. Pensa che sfiga…».
Paolo mi guardava allibito, Tommaso, il suo fidanzato tamburellava con le dita sul nuovo cd di Maria Jimenez, Alessandro facevo finta di non aver sentito visto che era stato al cellulare con Marco, il suo ex fidanzato, fino a un minuto prima e non aveva seguito la domanda, Beatrice aveva gli occhi lucidi, Alberto, il suo fidanzato mi guardava attraverso i suoi nuovi occhiali Prada e questo gli bastava per essere felice e indifferente a tutto. Andrea guardava Luca che guardava Samatha, sì col tha, che si guardava i piedi. Tutti avevano ascoltato il nostro dialogo, perché tutti erano lì apposta a verificare con mano il mio stato di salute. Erano corsi a stringersi intorno alla vedova che non aveva il coraggio di dire «aiutatemi» ad alta voce, che aveva paura di disturbare, che aveva paura di obbligarli a doversi occupare di lui. Era quello che volevano, in realtà perché era l’unico modo per lavarsi le mani. Perché per loro tutto questo rientrava nella normalità. Era la loro forma di lenire la sofferenza altrui, scrollandosi ogni responsabilità. E io, in quel momento, con una frase avevo spazzato via ogni loro incertezza. La vedova era un caso umano, per questo loro non avrebbero potuto occuparsene. Il risultato era lo stesso. Via libera. La loro coscienza era pulita. Me li immaginavo già il giorno dopo a dire: «L’unica soluzione per Alberto è di andare dallo psicologo. Tu cosa dici?». «Assolutamente sì, ma chi glielo dice, sai che Alberto ha un brutto carattere». Alberto. Ha un brutto carattere.
«Mi versi un po’ di vino, per favore, Samantha?»
«Comunque questa nuova casa e davvero bella», mi disse mentre mi versava il mio sesto bicchiere di vino aprendo, come una ruspa divarica l’asfalto, un tunnel pieno di banalità .
Alla fine della serata non riuscivo nemmeno più a stare in piedi. La mia bocca emetteva suoni poco chiari, io farfugliavo concetti impastati da troppo vino, troppe sigarette, troppe canne. E due anfetamine che Luca mi aveva portato dalla sua Farmacia. Ma nonostante tutto questo continuavano a non commuovermi, li trovavo patetici mentre mi vivisezionavano con lo sguardo impazienti di sapere quando sarebbe cominciato il mio viaggio nel baratro del ricordo. «Come gli farebbe bene sfogarsi», stavano pensando all’unisono quando barcollando scivolai sul pavimento slogandomi il polso destro. Ero sicuro che stessero pensando a quello, il loro sguardo titubante e incerto era la rappresentazione chiara e nitida di quello che il cervello gli stava passando. Il momento giusto per un’altra delle mie asfittiche provocazioni: «Non potrò neppure farmi le seghe», cincischiai mentre i mie amici mi stavano bendando la mano. Nessuno riuscì a ridere. (nella foto, la copertina del cd su cui tamburellava con le dita Tommaso).
(Per gli altri capitoli vedi http://penaepanico.splinder.com/)

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