lunedì, settembre 26, 2005

Sottopassaggio (capitolo cinque)

L’articolo non andava bene ed ero rimasto in redazione per risistemere alcune cose fino a notte tarda. Non mi importava nulla, non avevo nulla da fare a casa non mi interessava annoiarmi davanti al televisore o al telefono con qualche mio amico. Non ne avevo voglia. Javier non mi stava aspettando, io non avevo fretta. Rientrai verso la mezzanotte ed ero sfinito. I cartoni messi ovunque nella casa mi ricordarono che lo giorno dopo sarebbero arrivati i traslocatori per smontarmi i mobili e rimontarmeli esattamente dove avevo deciso, in un appartamento dalla parte opposto della citta’. Sarei rtornato con molta gioia nella zona in cui avevo fatto l’universita’, lontano parecchi incroci e semafori dalla mia vita di coppia con Javier. Aradna aveva venduto l’appartamento di Javier senza neppure chiedermi se mi sarebbe servito ancora. Mi arrivo’ la lettere del suo avvocato spagnolo nella quele mi invitava ad abbandonare l’appartamento al più presto. Anche lei aveva resistito poco ed era tornata in breve tempo quello che erano tutti intorno a me: inutili. Milano sarebbe tornata a non appartenermi come quattro anni fa, ma semplicemente ad ospitarmi come fosse un gigantesco motel a due stelle, una delle quali arrugginita. Il giorno dopo avrei preso un giorno di ferie, giusto per seguire i lavori di casa. L’appartamento me lo aveva dato una mia amica che aveva deciso di traslocare per sempre in un'altra parte del mondo, per amore. Io per la fine, invece, di un amore stavo arrivando lì in quattro misere stanze, al terzo piano di una via milanese a a pochi centinaia di metri dalla tangenziale est. Mentre i tre operai scaricavano sedie, tavoli, vestiti e suppellettili sognavo di scoparmeli tutti insieme e contemporaneamente come atto propiziatorio per la mia nuova casa. C’è chi caccia gli spiriti, chi attira i cazzi. Ognuno a modo suo si dà da fare per avere il meglio dalla vita. Due erano quasi decenti, uno era quanto di più bello avessi visto negli ultimi trenta giorni: capelli neri, occhi neri, pelle nera, look nero, anima nera. Era un indiano dalla sguardo imbronciato che conosceva la vita meglio di me che mi atteggiavo a uomo vissuto che sapeva il perche’ delle cose. Gli altri due erano latinoamericani dalla croce sul petto, l’anello d’oro al dito e dalle domeniche passate al parco Forlanini con mogli e figli appresso. Verso le 5 del pomeriggio il loro lavoro era terminato. Quello che avevo in testa io mai cominciato. A quell'ora, mentre guardavo il biglietto da visita dell’azienda con numero di telefono dell'indiano, tale Tarak, appuntato a matita in chiare lettere e numeri, i miei sogni più alteri griffati D&G si stavano decomponendo lasciando spazio ad altri più pragmatici vestiti Zara. Senza i miei pensieri sporchi e macchiati di sperma il suo volto avrebbe continuato a non esistere, senza di essi non lo avrei mai riconosciuto 15 giorni dopo in un localaccio gay di quarta segata in cui mi avevano trascinato per un servizio fotografico realizzato dal nuovo inserto del giornale per cui lavoravo. Le modelle ci stavano aspettando insieme al fotografo, ai truccatori e agli uomini incaricati di montare il set. Tra cui, appunto, c’era anche Tarak. Non mi riconobbe, non mi feci riconoscere mi limitai a sussurrargli “buongiorno” per farlo riprendere dalla sua perniciosa amnesia e riportarlo di colpo nel tennul della sua sgangherata sopravvivenza. Per lui non ricordare sarebbe stato un errore, per me non ricordare era doveroso se volevo continuare a vivere. Tarak mi passò vicino e mi disse: “Domani torno a Londra, Il bar di mio padre mi sta aspettando. Sono venuto qui ad aiutare mio cognato”. Io impassibile risposi: “Durante il trasloco mi avete scheggiato un vaso e rotto la gamba di un tavolino. Tutto qui. Buon ritorno in Inghilterra”. E mi abbandonai a pensare al mio maharaja’ Tarak.
(per gli altri capitoli vedi http://penaepanico.splinder.com/)

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