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venerdì, settembre 30, 2005
Lucia, Beatriz y yo
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Il futuro non passa.
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mercoledì, settembre 28, 2005
J'adore
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martedì, settembre 27, 2005
Fresca fresca di scatto
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lunedì, settembre 26, 2005
...e penso
Esco dalla stanza degli inviati e penso: "non ho argomenti con nessuno". Arrivo alla mia scrivania, mi guardo intorno e penso: "ma cosa ci faccio io qui". Vado in studio guardo le ragazze che stanno facendo le prove, sorrido e penso: "ma perché mi alzo la mattina?". Perché? Poi, dopo che il telefono squilla per tre volte di seguito e il mio ego rifiorisce e penso: "ma sì in fondo posso ancora resistere". E quando con la mente arrivo qui è finita. Che due maroni.....
Sottopassaggio (capitolo cinque)
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(per gli altri capitoli vedi http://penaepanico.splinder.com/)
domenica, settembre 25, 2005
Cuori al bar
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(Nella foto, Dream di Gilbert and George, 1984)
venerdì, settembre 23, 2005
mud mask, dead sea
Rieccomi qui a scriverti
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(Milano 2003. Nella foto, l'apparato cardio circolatorio).
giovedì, settembre 22, 2005
Sex'n Bossa and Sbaffe'n Party
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mercoledì, settembre 21, 2005
Inviati speciali
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Il calzino del Berlusca
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Il ciclone (e il temporale)
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Sono una dose minima per uso personale da consumarsi in giornata. Uno yogurt senza fermenti dimenticato nel frigorifero. Un uragano, che vuole essere ciclone, ma che diventerà temporale. (New York, dicembre 2004) (Nella foto Lucia Galeone, meteorina al Tg4)
martedì, settembre 20, 2005
Verità greca o romana?
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(Nella foto El Greco, autoritratto)
lunedì, settembre 19, 2005
Sottopassaggio (capitolo quattro)
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«Prada, l’ho presa l’anno scorso a Convivio».
«Stai benissimo».
«Amore come va?»
«Per fortuna che è finita, sono a pezzi lo stavo giusto raccontando a Dori, vi conoscete?».
«Sì ci siamo conosciute alla festa della Versace».
«Che serata, che serata la festa dalla Donatella. Sempre divertente».
Seduto, solo con lo sguardo proteso verso la fila che avevo di fronte, un bel po’ di fronte, aspettavo impaziente che la collezione uomo primavera estate di Roberto Cavalli si palesasse davanti ai miei occhi. Avevo gli ormoni a mille. Erano settimane che non mi portavo nessuno a letto e avevo voglia di sognare con questi efebici palestrati che da lì a poco mi sarebbero passati davanti agli occhi. Le solite starlette della televisione sembravano tutte arrivate. Sembravano, perché in realtà loro, lì sedute in prima fila a sventolare inviti per farsi aria non c’erano. C’erano i loro simulacri. Le starlette erano altrove. A Miami. Alle Hawai ad abbronzarsi in un beauty center per 10 euro, crema compresa. Il mio mondo in quei giorni era quello lì. Fatto di corpi che nel chiaro scuro di una sfilata si vedevano a tratti, di volti nascosti dietro occhiali scuri, di pelli consumate del sole e nutrite a Chanel e Nivea a seconda delle file in cui erano sedute. Era quello. Un mondo apparente e finto come uno studio televisivo, ipocrita come il mio dolore che si nascondeva intabarrato dentro i miei strati di lana. Mi guardavo in giro ma più in qua delle mura che chiudevano fuori il cielo non vedevo nulla. Ero lì e mi sentivo un puntino di inchiostro su un foglio nero, irriconoscibile come Eva Kant col travestimento. Il mio mondo era lì, con me spettatore che guardavo un ennesimo spettacolo che non mi apparteneva, un altro circo danzante senza equilibristi, nani e giocolieri, statico come il film del lunedì. Di colpo mi resi conto che stavo toccando la fine. Dentro ero un tossico dal sorriso smagliante, un apolide con doppio passaporto, un prostituto con la bocca slogata. Più in là c’era solo la mia ombra che tremolante non trovava più la figura che l’aveva generata. E a quel punto anche i modelli che mostravano i loro muscoli adamantini erano passati davanti indifferenti al mio sguardo, ai miei commenti, alla mia solita selezione naturale fatta di: "questo ispira, questo no". Il mio mondo, panciuto, con i glutei cadenti e le braccia flaccide si era imposto su di loro, sui loro visi imbronciati che promettevano ricchi premi e cotillon, sui loro sguardi assetati di realtà. Chiuso lo zoo, finita la sfilata, tornai da dove ero arrivato, con la testa bassa a fingere che quello spettacolo di plexiglas, freddo come una cascata, mi fosse servito almeno per un attimo a dimenticarmi. Ma Javier continuava a non esserci più, loro, i modelli al botulino, anche. Per cui come potevo rigenerarmi da due mancanze?
«Come è andata la sfilata»?
«Meravigliosa un orgia di musica e toraci», risposi al mio collega che si occupava di moda al quale, in quei giorni, stavo dando una mano al giornale.
«Roberto è sempre così, sa come stupire il suo pubblico. Immagino comunque che non abbia proposto nulla di nuovo o no»?
Roberto? Ma non sai neppure chi è Roberto, non gli hai mai stretto la mano a Roberto. Non hai mai scambiato neppure un opinione con Roberto? Cosa fa Roberto quando non lavora? Con chi esce Roberto la sera? A cosa pensa Roberto prima di addormentarsi? Che ne sai tu di Roberto. Eppure ne parli come se fosse l’amico di una vita. E io mentre tu mi parli di Roberto che non conosci vorrei vomitarti in faccia tutto quello che so di Javier, di come mi stringeva prima di addormentarmi, di come mi coccolava quando tornavo dal lavoro stanco, di come era capace di amarmi quando facevamo l’amore. E tu mi parli di Roberto? Ma chi cazzo è Roberto?
«Hai ragione nulla di che, un po’ come tutti mi sembra».
«Ormai nella moda non succede più nulla di interessante da anni. Le solite baracconate. Vado che devo correre da Ferré. Fai il pezzo, poi quando torno ci do un’occhiata».«Non vedo l’ora soprattutto che tu ci dia un’occhiata», pensai. «Ma lo sai coglione che Javier è morto e dei tuoi articoli del cazzo non me ne frega niente. Dai un’occhiata al mio pezzo? E se è sbagliato cosa succede che mi metti in castigo. E se è perfetto, invece, cosa fai? Mi fai resuscitare Javier e me lo porti qui? Ma qui dentro pensate che basti farmi seguire due sfilate e offrirmi un viaggio stampa alle Maldive per farmi stare bene? Ma cosa volete da me, perché non la smettete di fare finta di niente e non mi dite la verità, non mi dite quello che davvero pensate. E cioè: «Alberto dacci un taglio con i tuoi piagnistei nessuno può farci nulla, cerca di riprenderti il prima possibile però adesso lavora perché vogliamo andare a casa presto visto che noi qualcuno che ci aspetta l’abbiamo». Perché nessuno ha il coraggio di dirmelo. Eppure dai vostri sguardi al cerone, dietro i vostri occhiali griffati, nelle vostre giacchette cangianti non mi arrivano che bugie. Inutili, convenevoli e sedicenti bugie. I miei pensieri cattivi stavano prendendo una brutta piega. Mi stava venendo da piangere. Semplicemente perché era vero: loro, avevano davvero qualcuno che li aspettava a casa quando tornavano dal lavoro. Io no. Non avevo più neppure il gatto della vicina, collassato qualche mese prima sotto i miei occhi. Addio Javier. Addio Topino. (gli altri capitoli sono su http://penaepanico.splinder.com/).
(Nella foto l'ultima campagna di Oliviero Toscani per Ra-re)
sabato, settembre 17, 2005
Te ghè inscì de cur
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venerdì, settembre 16, 2005
Non vedo il Guggenheim
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Addizioni
porta eva
giovedì, settembre 15, 2005
Buon compleanno Milano
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Braccia rubate dai blog
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Domada: "Ma i giornalisti invece di dedicarsi ai propri blog non possono dedicarsi ai propri giornali?"
mercoledì, settembre 14, 2005
Dubbi neri (come i miei pensieri)
martedì, settembre 13, 2005
Buco orecchio sinistro, in alto a destra
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lunedì, settembre 12, 2005
La pretendo
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Anche tu sei un bonazzo
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"ciao xxx, anche tu sei un bonazzo. Sfortunatamente non abbiamo potuto approfondire la nostra conoscenza. Sono stato in vacanza con la mia famiglia e poi a Berlino con Dudu. Molto interessante e mi e' piaciuta la citta'. Camminavamo tutto il girono e la sera eravamo stanchi. quando ce' il sole alle persone piace stare tutte nude al parco. Abbracci tizio". Dopo un minuto ricevo la mail del mio amico che mi dice:
"Traduco in sintesi: voglio xxxxxx con te. A Berlino sfinivo il mio ragazzo con passeggiate perche' così la sera non mi obbligava a metterxxxxx xxx xxxx. Di giorno succhiavo xxxx al parco. Sono scemo ma mi piaci un casino. Dudu e' un nome da coglione, xxx e' meglio". Pazzo di lui...... (Nella foto la facciata dell' ambasciata messicana a Berlino)
Sottopassaggio (capitolo terzo)
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Quella sera avevo accettato l’invito di Maurizio ed ero andato a una festa. Era giusto un mese che Javier era morto. Esattamente un mese. Precisamente un mese. Non un giorno di più. Una delle sue sorelle mi aveva cercato ma io non avevo richiamato. Non avevo voglia di parlare con loro. Della loro sofferenza non mi interessava nulla. Li odiavo, prima quando Javier era vivo, continuo ad odiarli ora che Javier non c’è più. Non volevo conoscere il loro dolore, non mi interessava sapere quanto era difficile la loro disperazione. Per tutta la vita mi hanno insegnato la compassione, per tutta la vita mi si è stretto il cuore difronte alla morte e alla sofferenza degli altri. Adesso però non ne potevo più neppure di questo peso. Inutile, come passare la serata davanti al televisore sognando di essere al posto degli eroi che ti stanno tenendo compagnia. «Vi detesto» mi veniva voglia di gridare, lasciatemi stare, dei vostri racconti segnati da ricordi, lacrime e depressione non me ne faccio nulla. Per questo durante la festa mi è venuta la malsana idea di chiamare la sorella di Javier che mi aveva cercato per dirle semplicemente «So che mi hai cercato, scusa sono a una festa non sento nulla ti chiamerò io in questi giorni». Ovviamente non l’ho mai più chiamata e neppure mai più sentita. Avevo dato a loro la certezza di quello che sospettavano da sempre: Che a me di Javier non me ne fregasse niente. Che meraviglia, ero riuscito ad allegerirmi di un atro peso: quello di convincere gli altri di essere completamente diverso da come mi credevano. Anzi, no. Gli altri hanno ragione: non sono diverso da come pensano sia: sono esattamente e precisamente così. Però, per favore, lasciatemi in pace. Durante la festa mi sono trovato nel bel mezzo di una trombata semi collettiva. Con l’indifferenza di chi sa che tanto non cambia nulla, che la faglia trasforme che ha nell’anima da quando sei piccolo rimane tale, che il piacere dopo pochi secondi si trasforma in un senso di colpa opprimente, che quando ti riallacci i pantaloni e guardi la miseria che ti circonda pensi: «ma io non sono come loro», e hai perfettamente ragione, ma non si capisce mai perché alla fine con loro vai sempre a finire. Ma il vero dramma che tutto questo buio che anche allora mi aveva assalito non c’entrava nulla con la morte di Javier. Non aveva nulla a che fare con il fatto che lui era morto. Aveva a che fare con me. La sua unica colpa è che non c’era più e io ero tornato solo, come quattro anni prima. «Così mi sono trovato con tre persone nel letto senza neppure sapere come cazzo si chiamassero. Uno credo di averlo già visto in palestra o non so dove. O forse è un amico di Javier. Niente Nina, solite cose». Ero al telefono con Nina, la mia amica del cuore, quella che sapeva tutto di me, della mia vita, delle mie avventure, dei miei limiti, delle mie ultime scopate, dalla durata dei miei amanti, della lunghezza dei loro peni, delle mie posizioni sotto le lenzuola. Sapeva assolutamente tutto di quello che facevo. Meno del perché. «Sono tornato a casa tardissimo e mi sono svegliato ora. Che ore sono?». «Le tre». «Ieri era un mese che è morto Javier». «Già»? disse Nina. «Sì, un mese che non lo vedo più». «Alberto e non lo vedrai mai più, perché è morto».«Lo so che è morto», le risposi. «E che io sono rimasto solo», pensai.
(Gli altri capitoli di Sottopassaggio sono anche su http://penaepanico.splinder.com/)
domenica, settembre 11, 2005
A lei (ti trovo bellissima)
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Visit West Crete
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venerdì, settembre 09, 2005
pornoidee (anche stracce)
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Trovo questa affermazione di Martin eccezionale. E aggiungo. Perché a chi ha poca fantasia nello scrivere, per esempio, gli si dice di leggere tanti libri o chi ha poca fantasia in cucina di farsi ispirare dalle riviste di ricette, mentre chi ha poca fantasia nel letto deve arrabattarsi come può? E soprattutto se deve arrabattà come può il partner? Perché due idee, seppure stracce, se si guardicchia qualche film porno ogni tanto (e dico ogni tanto) vengono…Eccome se vengono.... (nella foto, Nacho Vidal pornoattore spagnolo erede di Rocco Siffredi molto apprezzato anche da Miguel Bosè)
Tg al mercato
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Domanda? Perché le giornaliste sono verduriere e le verduriere non sono giornaliste? Almeno al mercato tra un chilo di pomodori, tre di arance e un chilo e mezzo de frutta de stagione te leggerebbero er Tg.
(Nella foto, ritratto di Anita Berber, Otto Dix, 1925)
giovedì, settembre 08, 2005
Grande, babybertè
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(Una domanda e una risposta dall'intervista a Loredana Bertè di Francesco Belais per gay.it):
"Cosa pensi della situazione politica italiana?
Non bene, il vero terrorismo è l'informazione che fa schifo! Ti fanno vedere solo morti e se non sono italiani sembra non gliene freghi niente. C'è troppo allarmismo, ma chi dà il diritto a certa gente di chiudere una moschea? Tolleranza non ce n'è. Ma come si permettono in Italia a criticare la Spagna che ha acconsentito ai matrimoni gay? In Olanda per esempio mi dici che devo fa' pe' anda' in galera? Io adesso sono incazzata nera e rassegnata perché i nostri sono politicanti, non politici, si mettono tutti d'accordo per mangiasse la loro fetta di torta e guarda in quale stato sta il nostro paese. Sicuramente sono a sinistra, perché a destra non ci potrei stare, ma hanno rotto le palle con tutti questi partiti". grandebertè
(Nella foto, scattata da S, Loredana Bertè alle Messagerie Musicali di Milano)
Elza, la roca carioca
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( http://www.mpbnet.com.br/musicos/elza.soares/). (http://www.sombras.com.br/elza/elza.htm) (ttp://www2.uol.com.br/uptodate/elzasoares/port3.html)
mercoledì, settembre 07, 2005
Ah, Gerusalemme
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"Ieri un mio amico, con cui ero al telefono mi ha detto: "ma alla festa c'era anche quella lavandara di xxx?". E io gli ho risposto: "No, però c'era quella fruttivendola della xxx, accompagnata da quel rottame del suo fidanzato". E poi mi è venuto in mente di quando anni fa, eravamo ancora in trepida attesa della prima edizione del Grande Fratello, ho detto ad una mia collega: "Sai che secondo me potresti fare anche tu un reality? Potresti chiuderti nel cesso per cento giorni e vedere se i telespettatori riescono a scoprire chi è la tazza e chi sei tu....". Quest'anno in vacanza, un giorno l'amico con cui ero, dopo aver parcheggiato l'auto nel bel mezzo di un deserto di roccia, alle 14 del pomeriggio circa, mi ha detto: "Hai voglia di scendere che mi accompagni a fotografare il cammello?". L'ho guardato e gli ho risposto: "Non scenderei dall'auto neppure se ci fossero gli eredi di Estèe Lauder (nella foto) che distribuiscono creme gratis". Ah, Gerusalemme....." *(contessa, moglie dell'editore Andrea Rizzoli e rubrichista di Vanity Fair).
La bottiglia e il suo veliero
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"Sono l’inferno, ma senza fuoco e senza dannati. Sono la settima vita, dopo la quale è meglio tirare l’ultimo sospiro con una corda al collo. Sono un po' stufo dei miei discorsi arraffati, dei miei commenti rubati sotto il phone, della malinconia che trasudo......"
martedì, settembre 06, 2005
Lorellona for president....
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Un Albero(ni) da abbattere
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Ma l'apogeo il nostro Francesco lo tocca quando parla di sesso delle varie modalità per procurarselo: dalla seduzione alla pornografia, dall’amore di gruppo al ricorso all’eros a pagamento, dal voyeurismo ai giochi crudeli. Tutti affidati ai racconti di persone reali che hanno confidato a lui le proprie storie. Con gli uomini che cercano l’apprezzamento della loro prestazione, le donne che invece privilegiano sfumature, sensibilità, valori. Ma dai? Mi sa tanto che questo concetto gli è stato suggerito dalla moglie Rosa Giannetta a sua volta carpito dal parrucchiere mentre era alle prese con spazzole e phone per il boccolamento che la contraddistingue. Con il dramma che, appunto, con il phone nelle orecchie le sia sfuggito qualche concetto, un attimo più profondo di quelli riportati al marito. Conclusione di Alberoni: Per quanto però oggi si faccia sesso con piena libertà, se ne parli, si dichiari, c’è qualcosa che il sesso da solo non può dare. Conclusione di penaepanico: della pagina 33 del Corriere della sera di oggi si salva solo la foto (questa in cima a sinistra). Immagino cosa si può salvare del libro.
lunedì, settembre 05, 2005
Perché mia sorellina è qua..........
.....ovvero grazie (y gracias) parte seconda.
Grazie sorellina mia (a proposito, mi chiedevo: la foto l'hai fatta tu ma non sei tu, vero?) non vedo l'ora di stringerti e passare quelle prime 7, 8 ore per farmi raccontare quelle due o tre cose che in così poco tempo possiamo affrontare. Grazie a Giò che vuole che lo faccia divertire (?), e gm che spero mi segnali tutti gli errori che faccio quando scrivo.
Grazie sorellina mia (a proposito, mi chiedevo: la foto l'hai fatta tu ma non sei tu, vero?) non vedo l'ora di stringerti e passare quelle prime 7, 8 ore per farmi raccontare quelle due o tre cose che in così poco tempo possiamo affrontare. Grazie a Giò che vuole che lo faccia divertire (?), e gm che spero mi segnali tutti gli errori che faccio quando scrivo.
Sottopassaggio (secondo capitolo)
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"Javier è morto", mi disse in lacrime sua sorella entrando nella stanza di corsa, tre ore dopo essere arrivati a Madrid. "Javier è morto", mi dissi, mentre con una salvietta toglievo l’impasto di terra che mi ero spalmato sul viso". Il mio periodo Alexis Carrington si dileguò e improvvisamente si impose, al suo posto, quello Sue Ellen.
Al funerale non ci andai. Non avevo la forza. Mi avevano riempito di tranquillanti. Così avevano potuto organizzare una parata in stile militare per il figlio maledetto che raggiungeva per primo suo padre all’inferno.
"Javier è morto e io non so che cazzo ci faccio ancora qui", biascicai al telefono a mia sorella. "Javier è morto e io ritorno a non avere più senso", pensai dopo aver riattaccato la cornetta. Non mi ricordo nient’altro. A parte l’ultimo valium che mi fecero ingoiare prima di riaccompagnarmi all’aeroporto. Ero solo. Non avevo voluto nessuno che mi riaccompagnasse.
Ero solo come quattro anni prima e non ne avevo voglia. "Javier è morto",
continuavo a pensare, senza rendermi conto del significato preciso della parola morte. Fine della vita, cessazione di ogni attività respiratoria, cardiaca e cerebrale. Fine di tutto. Putrefazione.
Aprì la porta di casa nostra a Milano e mi vennero addosso tutti i ricordi che fino ad allora i valium avevano tenuto lontani. E io ero tornato ad essere microscopico e indifeso come quando da piccolo ero convinto che non ero io a crescere, ma gli oggetti a diventare piccoli. E Javier era lì, a cavalcioni dei suoi "ti amo, mi manchi, ti voglio bene, ti vorrei scopare per una vita intera senza mai fermarmi, non posso stare senza di te, sei la persona più importante della mia vita, io non ce la faccio a vivere lontano da te". E nella mia desolazione pensavo ad Aradna, sua figlia ventenne, mentre un minuto prima che partisse il corteo funebre mi aveva stetto e mi aveva sussurrato nell’orecchio "perdonalo, non voleva abbandonarti". Lei, che amava più di qualsiasi altra cosa al mondo suo padre frocio, omosessuale, culo. Lei che non aveva versato una lacrima per tutto il tempo della veglia funebre, stretta nel suo indomabile e silenzioso dolore. Ma dentro al suo corpo, però, scorreva il suo sangue, dentro il mio la mia rabbia egoista e fottuta che non mollava la preda. Lui era sua padre. Io ero il suo amante. Fine della storia. Lei sarebbe stata per sempre sua figlia, io cessavo di colpo di appartenere a lui e tornavo ad essere mio soltanto.
"Javier è morto, io no". Il mio unico terrore era di ricadere nel baratro in cui ero caduto per mesi prima di incontrare Javier. La mia disperazione non era per la sua morte, ma per la mia vita. Lui mi aveva lasciato solo, e come tutti gli altri che avevo avuto prima di lui non era stato capace di stare con me. Il fatto che lui non ci fosse più riempiva le mie giornate di una solitudine malsana e perniciosa che conoscevo bene, svuotava tutte le mie scorte di energia, mi obbligava a peregrinare da uno squaliido locale all’altro in cerca di un motivo per dire: "che bello essere qui". La mia sofferenza si dipanava tra due estremi: da una parte c’era la I dall’altra c’era la O. In mezzo assolutamente nulla. Lo avevo lasciato a Madrid, sotto due metro di terra, mi aveva lasciato a casa dei suoi per andare a comprare il regalo per me e non l’ho più rivisto. Non mi è rimasto nulla di lui. Se non le sue cose, i sui vestiti, i suoi libri, la sua scorta infinita di medicine, le sue collezioni di nani, il suo profumo. Ma non mi interessavano, non mi impressionavano e neppure mi facevano compagnia. Io volevo lui, volevo le sue mani sul mio corpo, il suo sesso addosso, il suo fiato sul collo, i suoi piedi a cavalcioni dei miei sotto le coperte. La casa era vuota, il mio letto era vuoto, io ero tornato vuoto. Senza un motivo valido per andare a casa dopo il lavoro, senza la voglia di aspettare il fine settimana per godermelo con lui, senza il desiderio di litagare con qualcuno. Ancora una volta dopo quattro anni si materializzava il problema di sempre: cosa fare di me. Io ho passato una vita intera a pensare cosa fare di me. Stavo congelando il dolore, così come avevo congelato gran parte dei miei sentimenti e anche di fronte ad una situazione lancinante come quella della morte non mi sentivo sfinito. Lo ero, ma non volevo accettare un’ennesima sconfitta. Javier non c’era più, con lui se ne era andata una parte di me. Ero distrutto. La mia sofferenza non conosceva sosta, era un giaguaro affamato che non mi dava tregua. Ed io mi lasciavo massacrare in silenzio, senza reagire. Ma non era dolore. Era disperazione, vuoto, abisso, paura, impotenza, terrore, incubo. In me era rimasta una goccia di acqua che poteva ancora diventare cascata. Ma non volevo questo. Volevo che la siccità portasse con sè tutto. Non mi lasciasse nulla. Tutto spazzato via. E invece no. Quella goccia bastarda non evaporava e alimentava la mia disperazione. Non per la sua morte, ma per la mia vita.
venerdì, settembre 02, 2005
Grazie (y gracias)
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Gay parade
Gay parade(ovvero tutto quello che un gay, se ci pensa bene, non ha mai dimenticato).
Ho trovato questa classifica in una scatola di Denim che utilizzavo quando ero piccolo per conquistare le mie prede. "Essendo uomo e non dovendo mai chiedere, chissà come sarà facile cuccare", pensavo, quando imberbe mi mettevo il gel in testa. Credo di averla copiata da qualche rivista (King?, Moda? Ragazza in?, mah). Ve la ripropongo.
Decima posizione
Quando è arrivata sembrava una generalessa nazi presa in prestito da tele Kabul, poi alla prima inquadratura delle mani e delle unghie, rigorosamente smaltate di rosso si è capito che dentro quel sergente batteva un cuore più femminile di quello di Boy George. Chi l’ha vista, parliamo di Donatella Raffai, non può essersene dimenticato.
Nona posizione
La pubblicità stampa di Regina Schrecker con la biondona di turno stritolata in una tuta in lamè d’oro munita di spalline a tre piani. Siamo negli anni ottanta. La Oxa a Sanremo scendeva le scale dietro una tuta aderentissima che la precedeva di un micromillimetro, Loretta Goggi aveva gli occhi tumefatti dall’ombretto e i capelli cotonati a rischio condono edilizio, mentre Enrico Coveri si era lanciato con i suoi jeans a palloncino, larghi sulla coscia e stretti in fondo, ed era caduto in piedi. Beato lui.
Ottava posizione
Erano belli, bruni e sorridenti. Anzi: bellissimi, brunissimi e sorridentissimi. La leggenda dice che siano stati scelti personalmente dal maestro Valentino per il lancio dei suoi bijoux. Sta di fatto che questi smandrapponi impenitenti stracolmi di anelli, bracciali e collane per sole signore hanno aperto un’epoca: quella del modello azzurro, versione moderna e rockettara del romantico principe. Da urletto.
Settima posizione
In casa ci portava la bicicletta, la panca per il crunch e il fidanzato ricco e potente. Ma lei non lo sapeva, che era ricco e potente. Gli spettatori che stringevano i pugni e incrociavano le gambe dall’emozione, sì. Loro si immaginavano entrare in questo loft improbabile gettando da una parte la tuta sporca di olio e lavoro per precipitarsi dall’altra muniti di pants aderenti, fascia per i capelli, e scaldamuscoli, impazienti di vivere le nuove lezioni di aerobica di Sydne Rome, Jane Fonda o Barbara Bouchet indifferentemente. Sognando ovviamente di diventare come lei, la Alex di Flashdance.
Sesta posizione
Dopo Wanda Osiris nessuna meglio di lei è stata in grado di scendere, seppur in questo caso di forma circolare, una scala. Lo faceva tra petali luminosi e corolle pulsanti al grido di: “Ecco a voi, bello più del sole, Marco Predolin”. Stiamo parlando di Sabina Ciuffini a M’ama non m’ama che ad ogni gradino faceva sobbalzare stuoli di giovanissimi cripto omosessuali che seduti sul divano tra la nonna e la mamma sublimavano la loro voglia di ola, con un colpetto di tosse. M’ama o non m’ama. S’ama…..sicuramente.
Quinta posizione
E’ arrivata dal nulla e subito nel nulla ci deve essere ritornata (in senso metaforico, ovviamente). Si chiama Tiziana Fiorveluti e per pochi mesi era la risposta privata alla pubblica Heather Parisi. La prima storia di rivalità tra bionda e bruna dell’era post soloRai sciupata a passi di dance, cicale e disco bambine. E’ bastato un attimo per accorgersi si lei: sorridente, scalata, e soprattutto spaesata (come i quattro telespettatori che se la ricordano). Immediata la scissione dei maschi in crinoline pronti a schierasi con l’una o l’altra. E in mezzo Tv sorrisi e Canzoni indeciso con chi stare.
Quarta posizione
BB. Non
Brigitte Bardot, ma Brigitta Boccoli. Non SaintTropez, ma la corte di re Gianni Boncompagni. Non il rumore dei ciak della nouvelle vague, ma gli scricchiolii delle casalle del cruciverbone di Domenica in. Bb come boccolona al quadrato, vista la massa di capelli che soprastavano la sua scatola cranica. E quando piangeva dal ridere e il cerone si squagliava, sotto gli occhi umidi di chi avrebbe voluto essere al suo posto, assurgeva in un nano secondo a Madonna d’Arval e d’Oreal contemporaneamente. Da ringraziare a suon di bottigliete d’acqua ossigenata. Guai se le fosse spuntata la ricrescita….
Terza Posizione
Alzava la c
ornetta del telefono, rispondeva Pronto chi gioca? e si toglieva l’orecchino con la clip. Tutto contemporaneamente. Tre gesti uni e trini che gli omovideo in fieri vedevano consumarsi in religioso silenzio. Era la Bonaccorti alle prese con il programma di mezzogiorno post Carrà. Un must, adorare Enrica che faceva scivolare l’orecchino dal suo lobo e lo tratteneva in mano prima di appoggiarlo sul tavolo vicino al telefono. Soprattutto per chi a quei tempi ignorava l’esistenza di buchi e percing, ma conosceva fin troppo bene quella degli orecchini pendenti fino alla clavicola della sorella. Quante notte in bianco passate a chiedersi: “Perché io no?”
Seconda posizione
All’inizio er
a brutta, scialba e senza un filo di trucco. Poi, dopo un viaggio in Europa, la catarsi. E riappare bella, truccatissima e soprattutto con una montagna di capelli in testa, da far sembrare Marcella Bella vittima dell’alopecia. E’ la carioca Sonia Braga in Dancing days alle prese con amori impossibili, rapporti Singer tutti da ricucire, drammi da eyeliner water resistent e tante ore buttate al vento di Copa Cabana beach. Per non parlare della sorella Jolanda diventata buona dopo una cura del sonno che ancora qualche paziente impenitente pretende dalle Asal. In quel periodo in Italia l’iscrizione all’Arci gay si pagava in cruzeiros (l’allora moneta brasiliana).
Prima posizione
Le prove le ab
biamo fatte tutti davanti allo specchio del bagno con il phone tirato al massimo, puntato a modi Calibro 54 sulla tempia. O in automobile con il finestrino abbassato e l’occhietto lacrimante fisso sullo specchietto retrovisore. Oppure, sventagliando a rischio crampo alla mano, l’ultimo numero di King. Perché volevamo essere come lei: Loredana Bertè alle prese con il vento invernale del suo triste e rauco mare. Lei, capelli all’aria, gridava a squarciagola: “ e io che non riesco nemmeno a parlare con me”. Gli altri dal bagno di casa, urlavano alla madre: “sì, vengo ho finito….” E spegnevano il phone grondanti di sudore.
Ho trovato questa classifica in una scatola di Denim che utilizzavo quando ero piccolo per conquistare le mie prede. "Essendo uomo e non dovendo mai chiedere, chissà come sarà facile cuccare", pensavo, quando imberbe mi mettevo il gel in testa. Credo di averla copiata da qualche rivista (King?, Moda? Ragazza in?, mah). Ve la ripropongo.
Decima posizione
Quando è arrivata sembrava una generalessa nazi presa in prestito da tele Kabul, poi alla prima inquadratura delle mani e delle unghie, rigorosamente smaltate di rosso si è capito che dentro quel sergente batteva un cuore più femminile di quello di Boy George. Chi l’ha vista, parliamo di Donatella Raffai, non può essersene dimenticato.
Nona posizione
La pubblicità stampa di Regina Schrecker con la biondona di turno stritolata in una tuta in lamè d’oro munita di spalline a tre piani. Siamo negli anni ottanta. La Oxa a Sanremo scendeva le scale dietro una tuta aderentissima che la precedeva di un micromillimetro, Loretta Goggi aveva gli occhi tumefatti dall’ombretto e i capelli cotonati a rischio condono edilizio, mentre Enrico Coveri si era lanciato con i suoi jeans a palloncino, larghi sulla coscia e stretti in fondo, ed era caduto in piedi. Beato lui.
Ottava posizione
Erano belli, bruni e sorridenti. Anzi: bellissimi, brunissimi e sorridentissimi. La leggenda dice che siano stati scelti personalmente dal maestro Valentino per il lancio dei suoi bijoux. Sta di fatto che questi smandrapponi impenitenti stracolmi di anelli, bracciali e collane per sole signore hanno aperto un’epoca: quella del modello azzurro, versione moderna e rockettara del romantico principe. Da urletto.
Settima posizione
In casa ci portava la bicicletta, la panca per il crunch e il fidanzato ricco e potente. Ma lei non lo sapeva, che era ricco e potente. Gli spettatori che stringevano i pugni e incrociavano le gambe dall’emozione, sì. Loro si immaginavano entrare in questo loft improbabile gettando da una parte la tuta sporca di olio e lavoro per precipitarsi dall’altra muniti di pants aderenti, fascia per i capelli, e scaldamuscoli, impazienti di vivere le nuove lezioni di aerobica di Sydne Rome, Jane Fonda o Barbara Bouchet indifferentemente. Sognando ovviamente di diventare come lei, la Alex di Flashdance.
Sesta posizione
Dopo Wanda Osiris nessuna meglio di lei è stata in grado di scendere, seppur in questo caso di forma circolare, una scala. Lo faceva tra petali luminosi e corolle pulsanti al grido di: “Ecco a voi, bello più del sole, Marco Predolin”. Stiamo parlando di Sabina Ciuffini a M’ama non m’ama che ad ogni gradino faceva sobbalzare stuoli di giovanissimi cripto omosessuali che seduti sul divano tra la nonna e la mamma sublimavano la loro voglia di ola, con un colpetto di tosse. M’ama o non m’ama. S’ama…..sicuramente.
Quinta posizione
E’ arrivata dal nulla e subito nel nulla ci deve essere ritornata (in senso metaforico, ovviamente). Si chiama Tiziana Fiorveluti e per pochi mesi era la risposta privata alla pubblica Heather Parisi. La prima storia di rivalità tra bionda e bruna dell’era post soloRai sciupata a passi di dance, cicale e disco bambine. E’ bastato un attimo per accorgersi si lei: sorridente, scalata, e soprattutto spaesata (come i quattro telespettatori che se la ricordano). Immediata la scissione dei maschi in crinoline pronti a schierasi con l’una o l’altra. E in mezzo Tv sorrisi e Canzoni indeciso con chi stare.
Quarta posizione
BB. Non
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Terza Posizione
Alzava la c
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Seconda posizione
All’inizio er
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Prima posizione
Le prove le ab
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giovedì, settembre 01, 2005
Sottopassaggio
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(La foto è il 45 giri della sigla di Bia un cartone animato di quando ero piccolo. Lei era una maghetta in fieri arrivata sulla terra per fare tirocinio, io probabilmente l'unico pirla che la guardava)
Primo capitolo
La mia casa era grande, colorata e vuota. Come un uovo di Pasqua senza sorpresa. Di quelli con la carta luccicante e argentata che si comprano ai discount per pochi euro. Per due lire, insomma. Mia madre non amava cucinare, non amava pulire, non amava confrontarsi con me, forse non amava neppure la vita che faceva. Ma non lo sapeva. Pensava che la bolla di sapone in cui aveva ficcato tutta la sua famiglia fosse abbastanza spessa da proteggerla dagli urti della vita. E infatti fu così per tutti, tranne per me, il più piccolo, il più difeso, il più colpito dagli sbattimenti contro i muri che ci stavano fuori. Il problema è che nessuno me lo aveva detto e io ero convinto che fuori da questo gigantesco globo dalle pareti gelatinose e rimbalzanti non ci fosse niente. Era il mio peluche, il mio salvavita Beghelli, la mai cartina geografica De Agostini, il mio Truman show, il mio universo firmato Trudy. Senza sorprese, però. Insipido come una zuppa di mare priva di pesce. Mio padre esisteva poco. C’era solo per giocare, per fare i regali, per ascoltarlo, per leggerti le favole quando eri ammalato.
Per tutto ciò che riguardava noi figli eravamo miamadredipendenti.
Mia sorella era odiosa, come tutte le ragazzine belle e sicure di sé, come tutte le donne convinte di potere capovolgere il mondo. Mio fratello era quello più vicino a me, che mi faceva giocare, sognare, credere di essere sempre altrove in un mondo fantastico fatto di felicità e sorrisi, canzoni e tv, tacchi a spillo e paillettes, in un’altra bolla, insomma. Più grande, più bella, più adamantina che mai. E poi c’ero io, traballante tra due metà, convinto che le persone non crescessero ma che fossero gli oggetti a rimpicciolire, anemico in un mondo di globuli rossi, scarrozzato a destra e a manca dalla mia timida volontà e da quella, decisamente più gigantesca, degli altri. Come una goccia di mercurio in un deposito di tondini d’acciaio. La mia vita era bella e finta come una coniglietta di Playboy.
"Ti sbrighi che siamo ritado porca troia? Perché mi devi sempre rovinare la vita?"
Javier non conosceva il senso della misura.
"Ma dove cazzo ha messo i passaporti?"
Javier non aveva memoria.
"I preservativi, ricordati i preservativi."
Javier amava fare l’amore.
"Mi spieghi che cosa ci fai tutavia in mutande?"
Javier aveva rotto i coglioni…
"Mi chiudi la porta per cortesia", risposi senza distogliere lo sguardo dallo specchio del bagno. Stavo mettendomi una crema anti qualcosa…rughe, opacità, smagliature, stress, inquinamento o chissà. Era il mio periodo Alexis Carrington.
Stavamo partendo per Madrid. I passaporti non servivano. Era il rito di sempre. Lui, quando in Spagna ci andavo anch’io, era in agitazione costante.
Perché dovevamo incontrare sua figlia, la sua ex moglie, sua madre, le sue tre sorelle, i suoi quattro fratelli, i suoi circa 15 nipoti e passare a depositare i fiori sulla tomba di suo padre. Il franchista di merda. Con l’arrivo della monarchia costituzionale nel 1976 a casa del generale Ramon Rodrigo Hierro Solinas de la Venta era arrivato anche il cancro. Ci vollero 10 anni, però, ma alla fine riuscì a portarselo via.
"Te aviso che nos vamos en taxi perché no tengo gana de cojer el coche."
"Va bene, però potresti chiedere il bagno che sto gelando", risposi da dietro una maschera di crema rilassante al gusto di vaniglia.
"Ma è tardi, Alberto, por favor sbrigati, che cosa ti sei messo en la cara, porcatroia, è tardi". Mancavano tre ore alla partenza del volo Linate-Barajas e considerando i 10, massimo 15 minuti di taxi, i 10 minuti per raggiungere il banco ceck-in di Linate e altri 10 tra scendere, salire dal taxi, mancavano giusto 2 ore e 25 minuti."Ti dispiace annullarti per almeno un’ora finché, cioè, non usciremo da casa, amoremio", gli dissi?
"Fanculo stronzodimmerda", mi rispose il mio Javier. L’uomo più bello del mondo, il più simpatico, quello più dotato di ironia, il più bravo, il più dolce il 40enne più affascinante della terra, il più rilassante, il più fantasioso, il più amorevole, il mio amore gigantesco.
Javier sul taxi. Javier al bancone del check-in, Javier al bar. Javier sotto il metal detector. Javier sull’aereo. Javier che non dice una parola. Javier che si è già preso mezza pastiglia di tavor e si è fumato una canna. Javier in mezzo alle nuvole, Javier da quattro anni con me.
"Cosa stai leggendo?"
"Un libro", mi disse
"Ma dai, pensavo un cd. E’ bello?".
"Mi sembra", mi rispose.
"Di chi è?"
"Irvine Welsh" mugugnò.
"E’ Colla?"
"Sì", ciangottò.
"Cosa gradite bere?" La hostess interruppe la nostra movimentata conversazione.
"Per me acqua gassata, per lui una Coca-Cola, ma senza caffeina. Sa, non sia mai che si svegli".
Javier mi fulminò con la sguardo e poi disse: "Acqua anche per me, grazie".
La hostess non rise ne prima, ne in quel momento, ne dopo quando simulai, con l’indice puntato alla tempia, di spararmi un colpo.
"Tra quanto arriviamo, io mi sono già rotto i coglioni".
"Scendi, se vuoi". Commentò. "Non so, magari su qualche nuvoleta trovi qualcuno simpatico come te con cui poi scambiare quattro chiacchiere", aggiunse.
"Spiritoso".
Era noiosissimo. Quando andavamo in Spagna dai suoi veniva divorato dalla noia che gli fuoriusciva da tutti i pori. Era l’uomo più noioso della terra.
Sua madre era la donna più ripetitiva del mondo. Un disco incantato era più vario. Le sue sorelle erano in ordine sparso: una silenziosa e timida, l’altra logorroica e invadente, l’altra ancora solitaria e ombrosa, la quarta scazzata e piena di rancori. I fratelli, invece, erano tutti uguali: fascisti. Particolare sufficiente per escluderli dal mio campo visivo. Anche se erano i fratelli del mio uomo, l’unico gay della famiglia da almeno sette generazioni, come mi aveva fatto notare la madre con molto tatto in una delle mie ultime rare visite. "Lei invece è l’unico frocio in famiglia?", mi aveva chiesto in un italiano traballante come la sua intelligenza. "No, c’è anche mio padre, è lui che mi ha svezzato", avevo avuto la prontezza di rispondere in uno spagnolo perfetto.
Arrivati all’aeroporto di Madrid Javier si fermò a bere un bicchiere di whisky, prendere l’alto metà tavor che gli era rimasto in tasca dalla mattina, fumarsi una sigaretta, bere un caffè". Il tutto sotto il mio sguardo rapito dal cameriere che assomigliava a Miguel Bosè: il ground zero della sensualità.
"La smetti di guardarlo, sei ridiculo". Mi sussurrò.
"Javier, mi sono rotto il cazzo di aspettarti. Vamonos ya, por favor".
E dopo aver buttato lì un "hasta a luego" al tipo del bancone, finalmente uscimmo da quell’infinito aeroporto spagnolo.
"E’ grandissimo questo aeroporto, no Javier?"
"Non quanto le mie corna", chiosò accennando a un sorriso, interrotto dalla mia occhiata paralizzante. "Ti amo amoremio, ti amo", gli dissi. "Anch’io, ti amo più di qualsiasi cosa al mondo, ti amo da morire. Però non farmi disperare qui a Madrid, fallo per me. Giuramelo che non mi farai impazzire. Dimi che non mi dirai nulla, non ribaterai alle provocazioni della mia madre, non darai ai miei frateli dei retrogradi amofobi naziskin, non dirai alle mie sorele che i loro mariti sono inutili, e i loro figli oltre ad esere cesi sono anche maleducati e lerci. Dimi che tutto quello che è successo l’ano scorso non succederà più. Giurramelo? Ti prego". Quando si concentrava il suo italiano non lasciava spazio a nessuna correzione. A parte le doppie che nonostante quattro anni di Italia non aveva ancora capito dove cazzo stessero.
"A dirti la verità non mi sembra che le cose siano andate precisamente così", risposi guardando fuori dal finestrino del taxi la vita di Madrid.
"No, quindi non è vero che quando ti ha chiesto perché vivi in una casa d’affitto a Milano, le hai risposto: perché io le tasse a differenza di quanto ha fatto suo marito le pago?".
"Ho capito, ma che cazzo gliene fotte a tua madre se vivo in affitto o la casa è mia?", commentai indifferente.
"Non è questo il problema. E’ che per lei mio padre è intoccabile, non tollera che nessuno lo critichi".
"Ho capito, ma anche lei prima o poi dovrà rendersi conto che è stato un franchista di merda", dissi fissandomi sull’ennesimo negozio Zara tirato a festa.
"Amore non sei tu che devi farglielo capire, per favore, dai"
"Dico che non mi devi rompere i coglioni. Già ti ho fatto un favore a venire qui. Se poi mi devi anche condizionare sulle cose che devo dire, be, allora vado in albergo e non ne parliamo più. O vuoi che vada a casa di tua moglie? Lei ogni volta mi invita. Non ho mai capito se lo fa perché vuole scoparmi. Per certe persone la condizione del “Io ti salverò” è genetica. Non ce la fanno a concepire che esistono anche i froci. E lei, non te confundas es asi.".
"No, por favor no. O sea, ya deja todo. Como si no hubiera hablado, hace lo que te da la gana però por favor no montar un conazo. Dejame vivir. Dejame en paz". Il tassista bruno lo guardò dallo specchieto retrovisore compiaciuto. Della serie: Spagna 1, Italia 0. Povero imbecille.
"Vale, vale, vale. Javier va bene, faccio tutto quello che vuoi, mi comporterò bene. Soprattutto con quelle botti sformate dei tuoi nipoti…".
Scoppiò a ridere, io lo ignorai. Madrid era una calamita per le mie emozioni. Continuavo a guardare fuori dal finestrino. Tutto quello che succedeve nel taxi, a parte il taxista ventenne imbecille dagli occhi scuri, mi lasciava indifferente. Anche i discorsi di Javier.
Avevo appena messo il piede in quella cazzo di casa labirintica, quasi come l’aeroporto di Barajas che già mi ero chiesto che cosa ci facevo io lì. La mamma era corsa a salutare Javier, seguita da tutte le sorelle e da quattro dei nipoti che avava.
"Mi amor mi anagelito, mi vida", gridava mentre con le braccia aperte recitava la solita scena già vista in altre occasioni. Idem le sorelle e i nipoti, questi ultimi, data la tenera età, in maniera molto più contenuta.
"Holà Alberto, come stai", mi disse allungando la mano.
"Bene, mamma, grazie", risposi di slancio. Silenzio assoluto. Gelo improvviso. Javier rischiò un colpo della strega visto che mentre pronunciavo la frase stava sollevando con un abbraccio una delle piccole botti parlanti che stavano rotolando lì vicino. "Bella giornata, no,
nonostante sia dicembre", aggiunsi in fretta e furia. Giusto per
riportare una ventata di serenità nella stanza. Ma la madre non colse questo mio intento e aggiunse: "Di mamma c’è ne è una sola e grazie a dio quella, nel caso tuo, non sono io", disse trattenendo a stento la giugulare pronta ad esplodere. Javier a quel punto era un Niagara di sudore nonostante la stagione, lo guardai mi fece una tenerezza infinita. Stavo distruggendo anni di diplomazia familiare, annulando anni di analisi, abbattendo con un alito di vento compromessi silenziosi accettati a suon di ripicche. Mi ritirai. Come Greta Garbo e BB, mi ritirai in silenzio, sotto lo sguardo terrorizzato e implorante dell’uomo che di lì a poche ore mi avrebbe abbandonato per sempre travolto da un camion.
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