lunedì, settembre 05, 2005

Sottopassaggio (secondo capitolo)

(primo capitolo vedi giovedì 1 settembre)
"Javier è morto", mi disse in lacrime sua sorella entrando nella stanza di corsa, tre ore dopo essere arrivati a Madrid. "Javier è morto", mi dissi, mentre con una salvietta toglievo l’impasto di terra che mi ero spalmato sul viso". Il mio periodo Alexis Carrington si dileguò e improvvisamente si impose, al suo posto, quello Sue Ellen.
Al funerale non ci andai. Non avevo la forza. Mi avevano riempito di tranquillanti. Così avevano potuto organizzare una parata in stile militare per il figlio maledetto che raggiungeva per primo suo padre all’inferno.
"Javier è morto e io non so che cazzo ci faccio ancora qui", biascicai al telefono a mia sorella. "Javier è morto e io ritorno a non avere più senso", pensai dopo aver riattaccato la cornetta. Non mi ricordo nient’altro. A parte l’ultimo valium che mi fecero ingoiare prima di riaccompagnarmi all’aeroporto. Ero solo. Non avevo voluto nessuno che mi riaccompagnasse.
Ero solo come quattro anni prima e non ne avevo voglia. "Javier è morto",
continuavo a pensare, senza rendermi conto del significato preciso della parola morte. Fine della vita, cessazione di ogni attività respiratoria, cardiaca e cerebrale. Fine di tutto. Putrefazione.
Aprì la porta di casa nostra a Milano e mi vennero addosso tutti i ricordi che fino ad allora i valium avevano tenuto lontani. E io ero tornato ad essere microscopico e indifeso come quando da piccolo ero convinto che non ero io a crescere, ma gli oggetti a diventare piccoli. E Javier era lì, a cavalcioni dei suoi "ti amo, mi manchi, ti voglio bene, ti vorrei scopare per una vita intera senza mai fermarmi, non posso stare senza di te, sei la persona più importante della mia vita, io non ce la faccio a vivere lontano da te". E nella mia desolazione pensavo ad Aradna, sua figlia ventenne, mentre un minuto prima che partisse il corteo funebre mi aveva stetto e mi aveva sussurrato nell’orecchio "perdonalo, non voleva abbandonarti". Lei, che amava più di qualsiasi altra cosa al mondo suo padre frocio, omosessuale, culo. Lei che non aveva versato una lacrima per tutto il tempo della veglia funebre, stretta nel suo indomabile e silenzioso dolore. Ma dentro al suo corpo, però, scorreva il suo sangue, dentro il mio la mia rabbia egoista e fottuta che non mollava la preda. Lui era sua padre. Io ero il suo amante. Fine della storia. Lei sarebbe stata per sempre sua figlia, io cessavo di colpo di appartenere a lui e tornavo ad essere mio soltanto.
"Javier è morto, io no". Il mio unico terrore era di ricadere nel baratro in cui ero caduto per mesi prima di incontrare Javier. La mia disperazione non era per la sua morte, ma per la mia vita. Lui mi aveva lasciato solo, e come tutti gli altri che avevo avuto prima di lui non era stato capace di stare con me. Il fatto che lui non ci fosse più riempiva le mie giornate di una solitudine malsana e perniciosa che conoscevo bene, svuotava tutte le mie scorte di energia, mi obbligava a peregrinare da uno squaliido locale all’altro in cerca di un motivo per dire: "che bello essere qui". La mia sofferenza si dipanava tra due estremi: da una parte c’era la I dall’altra c’era la O. In mezzo assolutamente nulla. Lo avevo lasciato a Madrid, sotto due metro di terra, mi aveva lasciato a casa dei suoi per andare a comprare il regalo per me e non l’ho più rivisto. Non mi è rimasto nulla di lui. Se non le sue cose, i sui vestiti, i suoi libri, la sua scorta infinita di medicine, le sue collezioni di nani, il suo profumo. Ma non mi interessavano, non mi impressionavano e neppure mi facevano compagnia. Io volevo lui, volevo le sue mani sul mio corpo, il suo sesso addosso, il suo fiato sul collo, i suoi piedi a cavalcioni dei miei sotto le coperte. La casa era vuota, il mio letto era vuoto, io ero tornato vuoto. Senza un motivo valido per andare a casa dopo il lavoro, senza la voglia di aspettare il fine settimana per godermelo con lui, senza il desiderio di litagare con qualcuno. Ancora una volta dopo quattro anni si materializzava il problema di sempre: cosa fare di me. Io ho passato una vita intera a pensare cosa fare di me. Stavo congelando il dolore, così come avevo congelato gran parte dei miei sentimenti e anche di fronte ad una situazione lancinante come quella della morte non mi sentivo sfinito. Lo ero, ma non volevo accettare un’ennesima sconfitta. Javier non c’era più, con lui se ne era andata una parte di me. Ero distrutto. La mia sofferenza non conosceva sosta, era un giaguaro affamato che non mi dava tregua. Ed io mi lasciavo massacrare in silenzio, senza reagire. Ma non era dolore. Era disperazione, vuoto, abisso, paura, impotenza, terrore, incubo. In me era rimasta una goccia di acqua che poteva ancora diventare cascata. Ma non volevo questo. Volevo che la siccità portasse con sè tutto. Non mi lasciasse nulla. Tutto spazzato via. E invece no. Quella goccia bastarda non evaporava e alimentava la mia disperazione. Non per la sua morte, ma per la mia vita.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

mi piaceva di più la prima parte, questa è troppo intimista, stile scrittore italiano contemporaneo che non ha un tubo da raccontare e parla della sua anima, del suo dolore ecc ecc
fatti, vogliamo fatti, storie, racconti di cose accadute impastati con pensieri, non pensieri da soli, che annoiano...
dacci un colpo di coda!
gm

penaepanico ha detto...

Gm grazie mille dei tuoi consigli, hai ragione, ne terrò conto. E' proprio per questo che ho deciso di sbattere sul Blog quello che ho scritto: per avere suggerimenti. E' vero quello che hai detto ma ,i sono fatto prendere la mano dall'intimismo e dal quaquaraqua perché ho voluto immaginare il dolore della morte a mio modo. Vederla non come assenza della persona ma come disfatta di chi è rimasto, come un fatto egoistico che ti sbatte di colpo di fronte alla tua solitudine. Davvero grazie